Servo
di Dio
IL SERVO DI DIO
MONS. GIUSEPPE DI S. MARIA
( SEBASTIANI)
Caprarola è una cittadina medioevale adagiata sulle falde dei monti Cimini in
provincia di Viterbo. Nella parte più alta è dominata dal Palazzo Farnese, ricco
di storia e di arte e aperta ad un vasto e suggestivo
panorama.
Gerolamo Sebastiani (così si chiamava il servo di Dio) vi nacque il 21 Febbraio
1623 da Giuseppe e da Polissena Lorenzi; lui proveniente dalle Marche e lei
appartenente ad una delle più onorate famiglie del luogo. Una buona nidiata di
figli, tre maschi e due femmine, venne a rallegrare quella famiglia. Gerolamo fu
il secondogenito. Non si conoscono molti particolari della sua fanciullezza. I
suoi genitori erano così felicemente uniti che chiesero al Signore la grazia di
poterlo essere in vita e in morte. Morirono infatti nello stesso
giorno.
Si narra che avendo il papà condotto in campagna il bimbo, questi si addormentò
sul suolo durante la breve assenza del genitore. Quando tornò lo trovò avvolto
tra le spire di un serpe. Spaventato al massimo e non sapendo cosa fare per non
terrorizzare il piccolo, si raccomandò alla Vergine e ad un piccolo movimento
l'animale si divincolò rapidamente e scomparve tra le
erbe.
Rimasto orfano in tenera età, fu affidato alla tutela del fratello maggiore
Carlo che lo inviò dapprima nella città di Viterbo per seguire gli studi e in
seguito si trasferì a Roma presso i Padri gesuiti che ne curarono la formazione
scientifica e
spirituale.
A contatto con la recente comunità carmelitana di Caprarola, voluta dalla
munificenza del Card. Odoardo Farnese, gli nacque la vocazione
religiosa.
Si consultò con il suo padre spirituale e si rivolse al
superiore del convento di S. Maria della Scala in Roma, P. Luigi di S.
Giuseppe.
Fu messo subito alla prova perché la sua decisione non fosse effetto di
momentaneo entusiasmo. Il giovane diede a vedere subito la solidità della sua
decisione distaccandosi da tutto e giungendo perfino a recidersi la sua fluente
capigliatura, come era uso nel suo tempo, e dare a credere che intendeva fare
sul serio.
Finalmente vestì l'abito della Vergine il 3 Marzo 1640 nonostante l'opposizione
di suo fratello e gli fu posto il nome di Fr. Giuseppe di S.
Maria.
Nel noviziato di S. Maria della Scala vi aleggiava il vero spirito teresiano,
reso visibile dalla vita santa dei due famosi maestri Giovanni di Gesù Maria e
Alessandro di S.
Francesco.
Alla scuola dei santi del Carmelo il novizio fece passi da gigante nella via
della perfezione religiosa. Suo immediato maestro fu il P. Antonio di S. Maria,
il quale gradatamente lo introdusse nello studio e nella pratica della
spiritualità carmelitana. Proponendogli l'intima comunione con Dio come fine
essenziale, lo educò contemporaneamente nell' esercizio del distacco e nella
pratica di ogni virtù. Distaccandosi da tutto arrivò a impedire che suo fratello
Carlo venisse a fargli visita, per timore che lo distogliesse dalla sua
vocazione. Punti di riferimento erano i cosi detti "Sacri puntini", tramandati
dai Santi riformatori e raccomandati dal Venerabile Calahorritano. Essi
diverranno la "magna carta" di tutti i noviziati
successivi.
RELIGIOSO
PER SEMPRE
Concluso felicemente l'anno di noviziato fece la professione religiosa il 3
Marzo 1641 con la emissione dei voti. Vi rimase fedele fino alla fine, convinto
che la vita religiosa era la via regale della santità. Il biografo P. Eustachio
suo nipote, scrivendone la vita nel 1718, lo definì: "Uomo di rara e singolare
osservanza, d'altissima orazione, di zelo apostolico e di invidiabile
prudenza".
Ai voti aveva voluto aggiungere il proposito di non accettare alcuna prelatura
dentro e fuori dell'Ordine, scegliendo ciò che fosse il più perfetto e il più
gradito al Signore, vivendo nel nascondimento. Perché il proposito del distacco
fosse più completo chiese ai superiori di poter proseguire gli studi non in
Caprarola sua patria, allora casa di studi, ma in altro convento lontano. La
richiesta fu accolta ed egli fu inviato a Gratz in Austria con grande disappunto
di suo fratello Carlo. Gravosi furono i disagi del lungo viaggio, data la sua
gracile costituzione. D'ingegno acuto e penetrante, terminò il corso teologico
con grande profitto e molto più, divenne autentico religioso teresiano. Si
ritenne indegno di ricevere gli Ordini sacri e solo quando i superiori glielo
imposero, perché molto si ripromettevano dal suo ministero, fu ordinato
Sacerdote. Il citato autore riferisce che: "Aveva impressa nell'anima una
singolare devozione a questo Santo sacrificio e perseverò poi sempre a
celebrarlo con angelico
raccoglimento".
Vi trovava energie sempre nuove sia da semplice religioso come da missionario e
da Vescovo; quelle che gli occorrevano in difficili e delicate situazioni. Solo
nel 1651 il Superiore generale P. Francesco del SS.mo Sacramento lo richiamò in
provincia e gli affidò l'insegnamento nel collegio filosofico di Caprarola. Vi
rimase appena un anno perché dovette recarsi nella città di Terni e di Roma per
l'insegnamento della teologia in S. Maria della Vittoria. Aveva acquistato una
grande perizia nell' insegnamento di tali materie e i suoi numerosi alunni
trovarono in lui "il dotto" il quale alla sapienza e dottrina univa il tratto di
grande amabilità, vivacità e allegria e divenendo amico di tutti seppe creare
intorno a sé rispetto e venerazione. Il desiderio della perfezione era radicato
in lui in maniera profonda e lo tenne seriamente impegnato per tutta la vita,
nelle varie mansioni e nelle diverse circostanze. Il suo confessore P. Gregorio
di S. Francesco dichiarò che in tutte le sue confessioni non aveva mai trovato
materia grave di offesa al Signore.
MISSIONARIO DI CRISTO
Da
poco tempo nella Congregazione d'Italia, sotto l'impulso del Ven. P. Giovanni di
Gesù Maria, era stato riscoperto lo spirito missionario e accolto con enorme
entusiasmo da tutti i religiosi, i quali si resero subito disponibili per
qualsiasi impresa di tal genere. Fr. Giuseppe fu uno di questi quantunque si
reputasse indegno di una missione così nobile e santa; accettò la nomina di
commissario del Papa Alessandro VII insieme a P. Giacinto di S. Giuseppe. Si
trattava di ricomporre l'unità dei Cristiani della Serra Malabarica - India -
compromessa da divisioni e disordini procurati ad arte da persone intruse ed
intriganti. Il Pontefice pensò che "inviando un qualche grave religioso
Carmelitano Scalzo con carattere e qualità di delegato apostolico, il quale
colla saviezza ne componesse li dispareri e colla autorità ne quetasse le
turbolenze, frenando l'orgoglio dei contumaci, et avvalorando il coraggio dei
buoni". (Op. cit. cap.VIII - 31).
In
quella comunità ecclesiale, bagnata dal sangue dell' apostolo Tommaso e
accresciuta dalle fatiche di S. Francesco Saverio, Un certo Tommaso De Campo,
arcidiacono della Chiesa locale, si era ribellato al proprio arcivescovo e,
autoproclamatosi arcivescovo e fattosi consacrare, aveva distaccato da quella
comunità ecclesiale una buona parte di fedeli. Inoltre, aiutato da un falso
patriarca nestoriano, vi aveva diffuso dottrine perniciose e contrarie
all'insegnamento della Chiesa, creando confusione e divisioni, a tal punto da
ridurre quella comunità Cattolica, già tanto rigogliosa, a poche migliaia di
fedeli.
Licenziatosi dal Pontefice e avendo come compagni i confratelli P. Vincenzo di
S. Caterina, della provincia Lombarda, P. Raffaele di S. Alessio romano, e Fr.
Luigi della provincia di Lione, partì da Roma il 22 Febbraio 1656 avendo appena
33 anni di
età.
Dedicò tutto il viaggio alla SS.ma Vergine di Loreto e, imbarcatosi a Napoli,
raggiunse Messina, l'isola di Malta e da qui toccò Candia, Cipro, Porto d'Acri e
Tolemaide. Ebbe l'immensa gioia di visitare il Santo Monte Carmelo, estasiato
della semplicità e povertà di quei confratelli. Venerò con grande effusione il
simulacro della Vergine e si introdusse nella grotta di
Elia.
Le
altre tappe obbligatorie furono Tripoli del Libano, Sidone, Aleppo, accompagnate
da furiose tempeste e difficoltà senza numero, provenienti da uomini, dal tempo
e dai luoghi, in un viaggio durato ben 13
mesi.
Furono gli stessi equipaggi insicuri; incontri con carovane di selvaggi, di
ladroni e di pirati che misero a dura prova il suo coraggio fino a rischiare
seriamente la propria vita, unitamente a fame e sete, malattie e strapazzi di
ogni genere. In tutti quei frangenti egli andava ripetendo: "Che navighiamo è
urgente; che viviamo non è necessario. Dominus sollicitus est mei".
Arrivato come Dio volle alla mèta, cominciò ad operare con tanta pazienza e
carità affezionandosi a tutti cattolici e scismatici, distribuendo loro una
grande quantità di Scapolari del Carmine, conquistandosi così il favore di
tutti. Trattò subito con grande prudenza e fermezza l'affare che la Sede
Apostolica gli aveva affidato, e andò incontro ad una serie immensa di
patimenti, sopportati per fare discernimento in quel gregge disorientato e
ricondurlo all'unità della Chiesa.
Si tentò di sequestrarlo, di avvelenarlo sopprimerlo tramite l'azione diabolica
dell'intruso e ambizioso arcidiacono. Il Servo di Dio non si perse d'animo, né
venne meno il suo coraggio e, confidando sempre nell'aiuto di Dio, appianò ogni
difficoltà e avviò le trattative con immensa pazienza e carità. Sul suo conto si
usò anche l'arma della calunnia facendolo ritenere come impostore, vagabondo e
mago, simoniaco e ladro. Dopo quasi un anno di intenso lavoro portato avanti in
mezzo a difficoltà enormi, avendo ormai ricondotto diverse comunità all'unità
della Chiesa e ridonata un po' di pace alla Serra Malabarica, senza però
riuscire a convertire del tutto l'intruso arcidiacono, pensò di far ritorno a
Roma e rendere conto del suo operato alla Sede Apostolica.
Ripartì il 7 Gennaio 1658 e dopo altri 13 mesi di fortunoso viaggio raggiunse la
città eterna il 22 Febbraio
1659.
L'accoglienza fu particolarmente calorosa, tenendo conto della difficile impresa
apostolica condotta ormai a buon fine. Risiedé nei conventi di S. Maria della
Scala e di S. Maria della Vittoria da dove, data la vicinanza con il Quirinale,
potè recarvisi agevolmente e conferire con il Papa desideroso di essere
informato di tutto. Accolto con grande benevolenza e stima, il Pontefice ordinò
una commissione cardinalizia perché decidesse il da fare per il consolidamento
di quella Chiesa del Malabar. Fu deciso di inviare un amministratore apostolico
con carattere episcopale e con la facoltà di consacrare vescovi. Naturalmente la
scelta cadde proprio sul P. Sebastiani che quantunque riluttante per il voto
fatto, dovette accettare la nomina e la consacrazione episcopale conferitagli
nella stessa cappella Pontificia da Mons. Landucci, Vescovo di Porfirione, il 15
dicembre 1659 a 37 anni di età. Accompagnato da altri religiosi e con nuove
istruzioni pontificie, dovette riprendere il viaggio delle Indie Orientali. Si
trattava di definire ogni questione e risolvere in maniera consistente la
situazione.
Dalle
lettere pontificie egli fu definito come religioso di specchiata fede, prudenza,
integrità, destrezza, vigilanza e zelo della Cattolica religione; era l'atto di
presentazione.
Ripartito da Roma, dovette affrontare altri disagi di un viaggio lungo e
quantomai difficile. Sostò nella città di Goa e arrivò a Coccino (Cochin) il 14
maggio
1661.
Dovè riprendere il suo lavoro pastorale rivisitando tutte le parrocchie della
Serra Malabarica: si trattava di far luce e chiarezza presso quei fedeli,
ripresentare la fede cristiana e la necessità di essere e vivere nell'unico
gregge di Cristo dal quale molti si erano
separati.
Spiegò attraverso varie giunte che Tommaso De Campo e il suo aiutante Ititomè
erano falsi pastori non nominati a tale ufficio dal
Pontefice.
Tra le altre cose dovette celebrare molte ordinazioni sacerdotali conferite
invalidamente dall'intruso, molte cresime e altri sacramenti.
Dopo aver usato la massima prudenza e carità con il falso prelato, non potendo
assolutamente accogliere le sue richieste incompatibili con la fede cattolica,
dové ricorrere alle pene ecclesiastiche, fare chiarezza e agire con molta
determinazione per salvare quella comunità
ecclesiale.
Vi riuscì in parte e, dopo un anno, avendo provveduto quella chiesa di nuovo
pastore nella persona di P. Alessandro De Campo che assunse il titolo Episcopale
di Megara, decise di
ritirarsi.
Avvalendosi delle facoltà pontificie, lo consacrò egli stesso con grande
solennità e con grande soddisfazione di tutti, i quali finalmente tornavano a
vivere un tempo di pace in quella
cristianità.
Il viaggio di ritorno durò altri 13 mesi in balia di altri pericoli per terra e
per mare, incontrando diverse e furibonde tempeste; dovette più volte
raccomandarsi l'anima unitamente al suo
equipaggio.
L'ultima, forse la più tormentosa, sbattè tutto l'equipaggio contro le coste
Italiane e solo con una manovra intelligente del capitano, con l'aiuto di Dio,
approdò nell'isola di Ponza. Raggiunse S. Felice al Circeo e toccando la città
di Velletri, da qui raggiunse
Roma.
Con grande spirito di fede ebbe a dichiarare: "Conosco benissimo che la Divina
Misericordia mi ha sempre con singolarissima Provvidenza aiutato, protetto e
guidato". Più ancora attribuì alla Vergine Ss.ma di Loreto la riuscita di
ogni sua impresa avendola eletta" vigilantissima
tutelare".
Giunse a Roma il 6 maggio 1665 e compiute tutte le formalità si recò da
Alessandro VII per rendergli omaggio e informarlo di tutto; chiese nello stesso
tempo il permesso di ritornare al chiostro nell'Eremo di
Montevirginio.
Tale permesso non gli fu accordato poiché il Sommo Pontefice era convinto che la
sua vita ancora tanto giovane potesse giovare alla Chiesa. Fu nominato
Visitatore apostolico delle Isole del Mare
Egeo.
Diveniva così, commesso viaggiatore della Santa Sede.
.
Le
isole del mare Egeo dipendevano dalla Repubblica di Venezia e dalla Turchia e
quelle popolazioni dovevano contribuire ai gravami dell'una e dall'altra con
evidente
disappunto.
Spiritualmente dipendevano dal Patriarca di Costantinopoli. A Nasso c'era la
sede arcivescovile e la comunità latina era molto ridotta e a contatto con i
greci si era creata una certa confusione. La S. Sede cercava di controllare la
situazione inviando ogni 10 anni un suo rappresentante perché determinasse le
leggi e ne ottenesse l'esecuzione.
Mons. Sebastiani dopo aver
visitato suo fratello morente nel convento di S. Valentino in Temi, vi si recò
chiedendo prima un appoggio logistico alla repubblica veneta, ottenuto tramite
il papà di S. Gregorio Barbarigo, Giovanni
Battista.
In quelle isole l'accoglienza fu più che entusiasta sia da parte dei vescovi
locali, sia da parte della popolazione. Per prima cosa vi raccomandò il culto
liturgico e il rispetto del tempio di Dio; condannò il vizio e i cattivi
costumi, ponendovi opportuni
rimedi.
Ai Vescovi, al clero e ai religiosi propose la santità come urgente
testimonianza in mezzo a quel gregge. Anche qui gli fu attentata la vita da
parte degli irriducibili avversari che lo volevano avvelenare. Ovunque si recò
cercò di ricomporre nell'unità inveterate divisioni, predicando la parola di Dio
con grande zelo e amministrando i
sacramenti.
Molti furono i fioretti che sbocciarono qui per effetto della grazia. Visitò le
isole di Caristo - Tine - Micone - Andro - e Delo, i cui particolari
sono
descritti nella citata
opera.
Riferì come in tutta la sua vita, non trovò mai strade tanto disagiate e
impervie quanto quelle delle isole, tutte incastonate tra enormi dirupi e
pietraie.
A Schio si incontrò con 6 Vescovi greci i quali gli significarono i disagi di
quelle popolazioni e gli proposero questioni dottrinali concluse positivamente
con la totale sottomissione all' autorità del
Papa.
Tracciò loro un programma di rinnovamento di vita spirituale e imbarcatosi sulla
nave del generale Comaro fece ritorno a
Roma.
Mentre si trovava a Venezia il 22 maggio 1667 gli giunse la notizia della morte
di Alessandro VII. Fu grande il suo dispiacere essendogli legato da grande
amicizia. Un pensiero lo preoccupava: che la sede vacante durasse troppo a lungo
a scapito della Chiesa universale e di quella del Malabar, bisognosa ancora di
tanta attenzione e sollecitudine
pastorale.
Volle recarsi a Loreto per ringraziare "Maria stella polare di tutta la
navigazione della sua vita" come l'aveva definita. Ritornò a Temi e da qui
raggiunse la cittadina di Caprarola per salutare i suoi cari e i confratelli
carmelitani. Nel frattempo fu eletto il nuovo Pontefice nella persona del
cardinale Rospigliosi che assunse il nome di Clemente
IX.
Il 26 luglio Mons.
Sebastiani rientrò in Roma proprio mentre il novello Pontefice prendeva
possesso della cattedrale di S. Giovanni in Laterano.
Si confuse tra la
folla festante, ma il Papa lo riconobbe e terminata la funzione, lo mandò a
chiamare dal vicino convento di S. Maria della Vittoria. Lo accolse "con
tenerissimo affetto" e gli volle affidare la cura pastorale della diocesi di
Anglona e Tursi in Basilicata, convinto che avendo operato così egregiamente in
mezzo agli infedeli, molto più avrebbe lavorato in mezzo ai
cristiani.
VESCOVO DI
BISIGNANO IN CALABRIA
Confuso e sbigottito per il nuovo incarico, piegò il capo come sempre alla
volontà di Dio espressagli dal Papa che questa volta gli volle affidare la sede
vescovile di Bisignano in Calabria. Avrebbe voluto nominarlo segretario di
"Propaganda fidei" ma egli declinando altri onori più prestigiosi, partì
immediatamente per raggiungere il suo nuovo gregge. Bisignano, cittadina della
provincia di Cosenza, aveva l'aspetto di una Roma in miniatura, per i suoi sette
colli come l'aveva descritta qualche autore. La popolazione era molto semplice e
laboriosa, dedita all'agricoltura e all'artigianato; servita religiosamente da
abbondante clero. La situazione spirituale non era del tutto florida: vi
dominava il malcostume nelle classi agiate e una certa rilassatezza attribuita
all'età decrepita del suo predecessore.
Imbarcatosi a Vietri raggiunse
la città di Paola accolto molto cortesemente dai padri Minimi e si trattenne
presso di loro per venerare le reliquie del grande taumaturgo calabrese S.
Francesco di
Paola.
Contemplativo com'era, si volle beare della stupenda visione dei due mari
Tirreno e Ionio, visti dall'alto dei monti con un unico colpo d'occhio. A
Lattarico, primo paese della diocesi, gli venne incontro la popolazione che lo
accolse calorosamente e lo accompagnò fino a Bisignano il giorno 8 Novembre
1667. Prese possesso di quella sede senza manifestazioni trionfalistiche e
chiassose, ma con somma semplicità. Vi si recava per servire e non per dominare
quel popolo. Si pose subito in azione con un lavoro capillare e paziente,
diretto ad elevare la vita spirituale del suo gregge. Si scrisse di lui, quando
si volle classificare il suo ministero pastorale: "Governò con forte soavità e
con soave fortezza: attento a non estinguere del tutto li rimorsi della
sinderesi (coscienza) né a tollerare con disperato rigore e con reprensibile
connivenza le licenze; animava i pusillanimi e temperava il coraggio talora
eccessivo dei più animosi: esortava con discorsi pastorali il popolo alla pietà
e spronava con le parole, e molto più con l'esempio li parrochi alla vigilanza"
(Op. cit. 37).
Prima di tutto voleva che l'insegnamento della dottrina
cristiana fosse impartito con ogni cura ed assiduità essendo fondamento di
tutta la vita cristiana.
Ugualmente insisteva sulla liturgia e sulla formazione culturale e spirituale
del Clero mettendosi, a tale scopo, a disposizione di
tutti.
Una folla di poveri, data la mancanza di risorse e la disorganizzazione sociale,
batteva alla sua porta per chiedere aiuto. Erano i diseredati, gli orfani, le
vedove, gli operai i cui diritti erano puntualmente conculcati dai dominatori di
turno. Mons. Sebastiani
si fece "tutto a tutti", difendendo sempre la dignità della persona umana e
aiutando tutti come poté. Risplendevano nella sua persona la virtù della
dolcezza congiunta ad indomito coraggio e fermezza nel correggere abusi e
difetti connessi alla natura umana. Questo apostolato deciso e concreto lo mise
subito in contrasto con alcuni signori del luogo che dominavano incontrastati e
pretendevano di dettare leggi al nuovo pastore e condizionarlo nel suo ministero
pastorale.
Anche qui gli piovvero addosso una quantità di calunnie, lettere anonime e
carteggi pubblici; tutto diretto a metterlo in cattiva luce presso il suo clero
e presso i
fedeli.
Il Servo di Dio mise tutto in conto volendo sempre rassomigliare in qualche modo
al suo Maestro
Crocifisso.
Le visite pastorali si susseguirono con grande sollocitudine volendo conoscere
di persona il suo gregge e valutare il livello spirituale di quelle
anime.
A tale scopo non risparmiò fatiche e disagi e non ebbe paura dei
potenti principi e signorotti i quali pretendevano di intromettersi in quel
lavoro pastorale per
condizionarlo.
Vi fu il caso del Barone di Tarsia il quale aveva concepito per il santo pastore
un odio viscerale. Accadde proprio che durante il battesimo di un nobile parente
fungesse da padrino. Il Servo di Dio con grande carità e coraggio gli si fece
innanzi e stringendogli la mano gli disse: "Voglia o non voglia, desidero
servirla e quanto più mi odia, tanto più
l'amo".
Tanto bastò per smontare per sempre quell'inutile castello di odio che si
tramutò subito in amicizia
perenne.
Altra volta dovette intervenire con una certa fermezza contro il Principe Don
Carlo Sanseverino il quale, non si sa per quale pretesa, aveva fatto costruire
nel presbiterio della cattedrale un trono. Monsignore appena conosciuto il fatto
lo fece immediatamente smontare e quando questi pretendeva di entrare nel tempio
armato di tutto punto e fare sfoggio della sua potenza, egli lo affrontò
chiedendogli: "Che chiedi dalla Chiesa di Dio Principe di Bisignano?". Questi
sopraffatto dalla maestà e dall'umiltà del Servo di Dio, sceso a più miti
consigli, depose fuori del tempio le armi e la sua arroganza e rispose: "Vengo
per assistere ai divini uffici" (Op. cito 386). Mons. Sebastiani presolo per
mano lo condusse nel tempio tra l'ammirazione e il plauso dei presenti per la
ritrovata pace.
La sua
intensa attività pastorale era congiunta ad una profonda vita interiore fatta di
orazione e di penitenza; povero nel vestito e nel vitto, in continua comunione
con il Signore. Fedele alla sua vocazione di contemplativo trovava il tempo per
trascorrere le due ore di preghiera prescritte dalla regola del Carmelo. Tutta
la sua spiritualità era attinta alla scuola del Carmelo, incentrata nel distacco
totale da ogni creatura per vivere l'intimità con il Signore. Tutta la sua
attività e la stessa conversione delle anime proveniva da questo contato
continuo con Dio.
Intervenne decisamente contro gli errori dottrinali e il malcostume, come nel
caso di un certo don Fabrizio Carasella qualificatosi per mago e di Carlo Funari
che riportò alla santità di vita, riconducendolo al monastero da cui era uscito
con scandalo di quella Chiesa. Carità pastorale, pazienza e fermezza furono le
sue armi di difesa in ogni circostanza. Anche la comunità Albanese insediatasi
in quella diocesi usufruì della sua sollecitudine pastorale, poiché egli vigilò
perché in quel rito non fossero introdotte novità seducenti e la comunità greca
non fosse danneggiata.
Trascorsero tre anni di ministero pastorale in terra Calabra quando il 9
Dicembre 1669 venne a mancare Papa Clemente IX suo grande amico e gli successe
sulla cattedra di Pietro il cardo Altieri col nome di Clemente X. Questo
Pontefice, suo grande ammiratore, nell'anno 1672 gli volle affidare la sede
vescovile di Città di Castello, pensando così di rendergli più facile la sua
azione pastorale tanto insidiata e avversata in quella sede per opera di persone
che lo perseguitavano a morte, mentre il clero e il popolo gli erano sommamente
affezionati.
Il capitolo della cattedrale, il clero e la popolazione lo diedero a vedere
quanto fossero addolorati per la promozione del loro pastore, da loro tanto
amato e stimato: gli scrissero con espressioni tanto eloquenti, significandogli
che, uno sposo non abbandona mai la propria sposa per nessun motivo e per
nessuna cosa al mondo.
IN TERRA UMBRA, VESCOVO DI CITTÀ DI CASTELLO
Il
pericolo di dover lasciare la sede calabrese lo presentì e, dovendosi recare a
Roma per la visita "ad limina" si congedò da quella Chiesa con grande commozione
e vi avrebbe fatto ritorno se la volontà del Papa non avesse disposto
diversamente. L'ultimo saluto con le lacrime agli occhi, lo rivolse da Paola a
quei fedeli assicurandoli nelle sue
preghiere.
Voleva sottrarsi al nuovo incarico ricorrendo ai cardinali Massimi e Paluzzo
Altieri, ma quelli gli fecero capire che, avendo fatto il voto del più perfetto,
doveva ubbidire e servire la Chiesa data la sua giovane
età.
La cittadina Umbra aveva una lunga esperienza di vita cristiana che risaliva ai
primi secoli della Chiesa. Vi erano fiorite l'arte e la santità attraverso
l'amabile figura di S. Veronica Giuliani, che ricevé l'abito religioso proprio
da lui; fu raccomandata ai superiori e diretta da lui nelle vie misteriose della
santità.
Mons.
Sebastiani vi si recò con molta sollecitudine raggiungendola ai primi giorni
di Novembre. La cittadinanza, informata del suo arrivo, gli riservò calorose
accoglienze tanto più che veniva a loro un pastore missionario e rappresentante
del
Papa.
Egli non deluse le aspettative e mise subito in atto tutte le sue energie,
avvalorate dalle precedenti esperienze
pastorali.
Per prima cosa volle che nel suo palazzo vescovile fosse di casa "madonna
povertà" volendo che alla sua mensa partecipassero i poveri che serviva egli
stesso, convinto di servire Cristo. Usò nei loro riguardi grande generosità,
dando ordine che tutte le risorse della mensa vescovile fossero devolute per le
loro
necessità.
Innamorato della parola di Dio, la meditava e approfondiva nel silenzio, per poi
proporla con grande ardore, ammonendo, esortando, servendosi di esempi pratici,
diretto a farsi capire dai dotti e dagli
ignoranti.
Alcuni testimoni asserivano che egli parlava con tanta eloquenza e con
altrettanta unzione da riuscire durante il carnevale a fare disertare le piazze
ai suoi fedeli che accorrevano in massa per ascoltarlo; aveva il carisma della
parola e riusciva ad infiammare gli animi e a trascinarli nel bene. Tra l'altro
si dilettava di musica e di canto, volendo che nella sua casa vescovile si
solennizzassero le serate natalizie come era in uso al
Carmelo.
Il biografo ebbe ad asserire che "Mons. Sebastiani, se aveva
trovato le Chiese ridotte in piazze, egli aveva convertite le piazze in Chiese"
(Op. cito
436).
Rivolse la sua attenzione prima di tutto al clero e successivamente a tutto il
popolo. Iniziò dal culto divino e dalla liturgia perché fosse rinnovata e
vissuta meglio poiché la celebrazione dei divini misteri e l'amministrazione dei
sacramenti venivano bistrattati dalla fretta e dalla distrazione. Per rinnovare
la vita della diocesi preparò e celebrò due Sinodi con conclusioni molto
sagge e
pertinenti.
Frequenti furono le visite pastorali con le quali di persona volle rendersi
conto del livello spirituale e materiale di tutta la
Diocesi.
Le località erano piuttosto impervie e difficili da raggiungere a tal punto che
da molti anni non vedevano più il proprio pastore. Egli si sobbarcò a
intemperie, fatiche e disagi pur di prendere contatto con tutti e i frutti
furono
abbondanti.
Anche qui non gli mancarono sofferenze e calunnie, orientate tutte a fiaccare il
suo coraggio e farlo desistere da quell' azione pastorale tanto assidua ed
efficace.
Approvati e stampati i decreti sinodali nel 1675, volle che tutti i sacerdoti li
possedessero e fossero scrupolosamente osservati a vantaggio della Chiesa locale
che vi fece grandi progressi di vita spirituale.
Il 21 Settembre 1676
salì sul trono Pontificio Innocenzo XI, "uomo di Dio", che la Chiesa eleverà
alla gloria degli altari nel 1958 per opera di Pio
XII.
Lo conosceva bene e si era stabilita tra le due personalità una certa affinità
di spirito e una santa amicizia. Ricevendolo una volta in udienza quantunque
fosse malaticcio, l'udienza si protrasse per ore e ore con meraviglia dell'
anticamera: come mai un Pontefice tanto malato si intratteneva così a lungo con
Mons. Sebastiani? La
risposta venne dallo stesso Innocenzo XI: "Abbiamo avuto una delle maggiori
consolazioni del nostro pontificato, in aver parlato a lungo con un grand'uomo
dabbene, il Vescovo di Città di Castello" (Op. cito 514
).
Tra le altre cose, in Diocesi trovò il modo di purificare il culto dei santi
Martiri molto spesso mescolato a superstizioni e disordini in occasione della
loro festa.
DEVOZIONE
VERSO LA VERGINE MARIA
Come figlio del Carmelo non poteva non interessarsi del
culto mariano. La sua devozione era profonda e sentita e pertanto la volle
diffondere dove fosse assente o
indebolita.
Ripristinò l'uso del suono delle campane al mattino, a mezzogiorno e a sera
perché tutti si ricordassero di ossequiare la Madre di Dio con la salutazione
angelica. Era lui stesso che talvolta ne dava esempio in pubblico, scendendo
dalla carrozza e porsi in ginocchio per recitare "l' Angelus". Anche la recita
del S. Rosario era quotidianamente praticata unitamente alla pia prassi dello
Scapolare del Carmine, come atto di consacrazione e di protezione della Ss.ma
Vergine che diffuse lungo i suoi pericolosi viaggi e in ambedue le
Diocesi.
I due santuari mariani di Belvedere e di Pietralunga divennero la pupilla dei
suoi occhi. Nel primo, voluto dal suo predecessore e da lui completato, ebbe la
incomparabile gioia di intronizzarvi una antica icona
mariana.
Nel secondo pose i titoli molto significativi di Maria: "Utriusque salutis
remedium". Tale titolo fu motivato dalla liberazione di Vienna al tempo di
Innocenzo XI contro l'invasione ottomana cui si aggiunse la sospirata pioggia
che da diversi mesi mancava in quella regione. Maria SS.ma aveva allontanato il
pericolo dell'invasione di tutta l'Europa e ottenuto la pioggia abbondante,
favorendo così la salute del corpo e quella dello
spirito.
L'ULTIMO
VIAGGIO
La
salute di Mons.
Sebastiani, già minata e fiaccata dalle enormi fatiche, dagli interminabili
viaggi, dai digiuni e penitenze, fu compromessa ancora dall' insonnia che
divenne cronica. Lo si notò dal suo viso emaciato e pallido, da tutta la persona
dimagrita e indebolita al massimo, impressionando lo stesso Pontefice Innocenzo
XI che gli raccomandò di riposarsi e curare meglio la propria
salute.
Presago della prossima fine, volle congedarsi dal Pontefice e dai cardinali; si
recò a Caprarola per salutare i suoi desideroso ormai di raggiungere la meta. Il
suo desiderio era quello di poter morire nel giorno dedicato alla Regina del
Carmelo o nella festa di S. Teresa di Gesù. Conoscendo la data vi si volle
preparare
degnamente.
Volle dispensare i nipoti e parenti da altre visite disponendo che tutte le sue
povere risorse fossero devolute a favore della Chiesa locale, a beneficio dei
poveri e in parte al Seminario di S. Pancrazio per le necessità della Serra
Malabarica.
Fece scomparire gli strumenti di penitenza e, peggiorando ancora, chiese perdono
a tutti, al clero e a quanti componevano la curia
vescovile.
Giunse perfino a chiedere che il suo cadavere fosse seppellito sotto il
pavimento della Chiesa cattedrale perché tutti potessero calpestarlo come
oggetto di nessun
valore.
A tale scopo si era preparato un epitaffio tutto soffuso di grande umiltà, in
questi termini: "Foglia della selva del riformato Carmelo, staccata e portata
dal vento per il mondo, fatta nutrimento nocivo del gregge - e ora racchiusa
sotto questa pietra - calpestate, o piedi degli
uomini".
Quantunque le sue sofferenze fossero enormi, dal suo animo non scaturì un
lamento, ma gemiti e preghiere pervase da straordinaria freschezza.
"Aumenta il dolore e aumenta anche la pazienza; sii propizio a me peccatore;
concedimi un purgatorio eterno, ma non l'inferno. Ricevi i miei dolori uniti
alla tua passione". Questo suo calvario durò cinque mesi e tra l'altro, fu
colpito dalla malattia degli scrupoli e dall' aridità di spirito, sembrandogli
che Dio lo avesse dimenticato. Era invece "la notte dello spirito" che, secondo
S. Giovanni della Croce, stava attraversando, e preludio della
gloria.
Il 27 Luglio gli fu amministrato il S. Viatico stando in piedi e raccomandandosi
alle preghiere di tutti perché gli fosse accordato il dono della perseveranza
finale. Il Pontefice Innocenzo XI avuta notizia della sua grave malattia,
espresse il suo rammarico pregando per la sua
salute.
Mons. Sebastiani aveva
offerto la sua vita per quella del Pontefice, ritenuta più utile alla Chiesa che
non la sua. Il Pontefice spirò il 12 Agosto 1688 ed egli contemplò la gloria che
il Signore aveva riservato a questo suo servo
fedele.
Ci si mise anche il demonio che sferrò contro di lui l'ultima battaglia
facendogli dubitare della Misericordia di Dio e arrivando ad assumere le
sembianze del suo confessore P. Caraffa che lo consigliò in maniera strana e del
tutto contraria allo spirito cristiano, tentando di disorientarlo e precipitarlo
nella disperazione. Se ne avvide in tempo quando arrivò il P. Caraffa e,
conosciuto l'equivoco diabolico, rinnovò la sua fiducia in Dio ponendo la sua
persona nelle braccia di questo Padre misericordioso e
clemente.
Giunse
il mese di Ottobre e coloro che lo assistevano erano Mario Paoleri e Tommaso
Bianchi che consapevoli della grave malattia, erano addolorati perché ormai era
imminente la perdita di un padre così mite e
santo.
Il giorno 14 perse quasi del tutto la favella e facendosi intendere con
difficoltà chiamò il suo vicario generale P. Caromi, il canonico Randolfi e il
suo segretario Don Andrea Chigi per fare a loro le ultime raccomandazioni.
Voleva che i sacerdoti non si allontanassero troppo dalle loro parrocchie; che
nei monasteri in tempo di "Sede vacante" non si rallentasse il fervore dello
spirito.
Domandò che ora fosse e, sentendosi rispondere che era la mezzanotte, ringraziò
il Signore esclamando: "Deo Gratias" poiché entrava nella fatidica data dell' 15
Ottobre 1689. Gli furono recitati i versetti di alcuni salmi in questi termini:
"Unam petii a Domino, hanc requiram, ut inhabitem in Domo Domini", "Una cosa ho
chiesto al Signore, questa io desidero, abitare nella casa del
Signore".
Li gradì e li gustò sorridendo dolcemente e spirò. Il cronista annotò che mentre
i religiosi carmelitani, nei conventi cantavano i secondi vespri di S. Teresa
"il nostro Ven. Vescovo Fr. Giuseppe di S. Maria, Sebastiani, rese l'innocente
suo spirito al Creatore" (Op. cito 537
).
Il suo desiderio si era puntualmente realizzato morendo in giorno di sabato
nella festa della Serafina del Carmelo a 66 anni di età, sette mesi e 21 giorni
così distribuiti: 17 anni nel mondo, 16 nel Chiostro, 10 come missionario e
vescovo della Serra Malabarica, 5 come pastore della diocesi di Bisignano in
Calabria e 17 come Vescovo di Città di Castello in Umbria.
Grande
fu il cordoglio di tutti, e le folle furono così numerose da dover transennare
la salma e difenderla dai fedeli che già ne avevano tagliuzzato gli abiti e i
capelli come preziose reliquie. Lo si dovè sotterrare di notte per sottrarlo
alle intemperanze devozionali della popolazione, seppellendolo sotto il
pavimento come aveva desiderato con questa iscrizione alquanto diversa da quella
composta da lui:
"Ven. Fr. Joseph a S. Maria De Sebastianis. Bis ad Malabares, ad
Arcipelagum semel delegatus apostolicus - Hierapolitani Bisiniani et demum
Civitatis Castelli episcopus vigilantissimus - Hic dormit - qui dum permaneret
in vigiliis multis - Hoc prae humilitate sibi monimentum
paravit".
Tradotta dal latino così suona:
A Dio ottimo Massimo. Qui dorme il Ven. Fr. Giuseppe di S. Maria
dei Sebastiani.Delegato Apostolico due volte nel Malabar ed una nell'
Arcipelago: Vescovo vigilantissimo di Gerapoli, di Bisignano e finalmente di
Città di Castello - il quale ancora vivo - si preparò per umiltà il seguente
epitaffio: "Questa foglia - dalla selva del Riformato Carmelo per il mondo
trasportata dal vento - e in pascolo delle pecorelle ovunque nociva - chiusa
finalmente sotto questa lapide, piedi umani, calpestate"
.
In
seguito, nell'anno 1717, fu eseguita una ricognizione e fu trovato ancora in
ottimo stato, ben conservato e molto disseccato, trasportato accanto alla porta
di ingresso della stessa
cattedrale.
Per saperne di più:
Eustachio di S. Maria
"Istoria
della vita, virtù, doni e fatti illustri del Ven. Mons. Fr. Giuseppe di S. Maria
de Sebastiani
dell'ordine dei Carm. Scalzi -
Delegato e visitatore apostolico all'Indie orientali -
E Vescovo di Gerapoli,Bisignano - e Città di
Castello.
Roma nella stamperia di Rocca Bemabò
MDCCXIX.
Onorio Di Ruzza
Sintesi storico cronologico
della provincia romana dei Padri Carmelitani Scalzi Ed. O. C. D. Roma
1987.
Francesco Saverio Federici
Cenni storici sui
conventi dei PP. Carmelitani Scalzi della Provincia romana
Tipogr. Cuore di Maria -Via Banchi Vecchi 12 - Roma
1929.
Onorio di Ruzza
Quattro secoli di storia e di
cultura -
Profili bibliografici degli scrittori e artisti della Provincia
romana dei Carmelitani Scalzi (1597-1997)
Roma,
1996.
Copyright © 2008 Carmelitani
Scalzi